Sigfrido Ranucci ha subìto un attentato. E questo basta a garantirgli una solidarietà piena, sincera, senza equivoci. Chi colpisce un uomo per ciò che dice è un delinquente, punto. Se poi mette a rischio anche i suoi cari, è un verme. Punto esclamativo. Ma non per questo l'aggredito scusabilissimo per ciò che dice da sotto la valanga di emozioni e di spavento per la propria famiglia diventa un santo, né ottiene un salvacondotto per dire qualunque fesseria gli passi per la testa davanti alle istituzioni europee che lo hanno convocato a testimoniare. Lo ha fatto al Parlamento di Strasburgo contro chi lo aveva a suo tempo denunciato, e la Schlein lo ha rincorso felice su questa strada. Una bomba contro di te non è un lasciapassare per entrare nella coscienza altrui, come fosse casa tua.
Ranucci resta libero di parlare, ma anche gli altri restano liberi di rispondere. È il gioco della libertà, che vale in entrambe le direzioni. Aver subito una violenza non significa poter sparare sentenze a man salva, trasformando la solidarietà in sudditanza. E non significa neppure che chi osa criticarlo debba essere bollato come complice morale dei suoi aggressori.
L'attentato pare essere opera di clan malavitosi, legati a inchieste che con il governo e la politica italiana nulla hanno a che fare. Il fatto è che in Italia c'è chi utilizza ogni vicenda per costruire narrazioni tossiche. Elly Schlein, da Amsterdam, ha detto che "la democrazia e la libertà di parola sono a rischio quando l'estrema destra è al governo". Tradotto: la colpa è di Meloni. Antonio Polito sul Corriere ha commentato: "Se ad Amsterdam ci fosse un Rubicone, Schlein l'avrebbe varcato". Giusto. Ma non per fondare un impero: per affogare nella propaganda.
C'è poi l'intervento senz'altro nobile di Francesco Storace, che ha invitato a ritirare le querele contro Ranucci e Report. Apprezzabile l'intento pacificatore dell'amico di Libero, ma la logica mi sfugge. È come dire che una ferita alla reputazione si sana se il tuo (presunto) aggressore viene colpito da altri. Una visione un po' tribale della giustizia: un baratto tra torto e dolore. Ma la verità non si sconta in contanti morali. Esiste il diritto di difendere la propria reputazione, o no?
Non so voi, ma io mi ricordo. La storia della nostra Repubblica è strapiena di inchieste che hanno impiccato innocenti, e che non si sono mai risolte in condanne per i mentitori. Il primo agnello sacrificale del giornalismo d'avanguardia (comunista) è stato Luigi Calabresi: chi l'ha accusato di essere il "commissario torturatore", fornendo il movente e creando l'atmosfera giusta per chi l'ammazzò nel 1972, circola ancora tra i venerati maestri: erano settecento i firmatari della lettera assassina uscita sull'Espresso, quanti hanno chiesto scusa sono meno delle dita di una mano. Qualcuno ricorda Giovanni Leone costretto alle dimissioni per accuse di corruzione poi rivelatesi false? Prima però arricchirono i calunniatori, insieme agli editori delle loro panzane. Nessun risarcimento toccò al galantuomo napoletano. E i venticinque anni durante i quali Berlusconi fu dipinto un giorno sì e l'altro pure quale cassiere di Cosa nostra? La smentita definitiva della Cassazione è di tre giorni fa, a babbo, anzi a papi morto. Nel frattempo, però, anche ai funerali lo hanno inseguito ancora ieri con queste dicerie fognarie. Come con Andreotti, braccato da film ignobili persino dopo la doppia assoluzione. La macchina che produce letame, una volta avviata, non conosce marcia indietro, e ti inzacchera per saecula saeculorum.
La libertà di parola è sacra, ma nel novero dei suoi nemici, almeno in Italia, non vedo i politici in lizza per la medaglia d'oro. La merita piuttosto l'Ordine dei giornalisti, un istituto che predica la libertà e poi mette alla gogna chi non si conforma. Parlo per esperienza. Mi rendo conto: sono in conflitto di interessi, ma vedersi rincorsi, anche quando si ha l'età del dattero, da segugi di cui nessuno ricorda non dico un aggettivo ma neanche una virgola (copyright di Enzo Biagi) è una gloria immeritata. Poi vengono i magistrati, che hanno il record provato scientificamente di querele e di denari incassati per la minima critica a loro inflitta. Rammento che Pier Camillo Davigo, ai tempi d'oro in cui gareggiava con Di Pietro in richieste milionarie per presunte diffamazioni, aveva sulla scrivania una cartelletta con le cause da lui intentate e la scritta "Per una serena vecchiaia": finché, dopo aver stipato molto lardo in cambusa, anche lui - come noi giornalisti tapini - ci ha lasciato lo zampino. Comunque sia chiaro: con tutto questo i giornalisti italiani restano i più liberi del mondo di attaccare l'asino dove vuole il padrone. Con la schiena diritta ovviamente.
Vittorio Feltri

