In fondo sull'Ucraina si gira attorno sempre alle stesse soluzioni. Il 2 marzo del 2022, a dieci giorni dallo scoppio della guerra, sul Giornale teorizzai l'ingresso di Kiev nella Ue. Il 7 ottobre dello stesso anno scrissi dell'adesione dell'Ucraina alla Nato. All'epoca queste ipotesi furono prese con un certo scetticismo ma trascorsi tre anni siamo sempre lì. Alla fine se si vuole garantire una sicurezza efficace al Paese bisogna agire su quei meccanismi di solidarietà: l'ingresso nell'Unione Europea assicurerebbe a Kiev la copertura prevista dall'articolo 42, paragrafo 7 del trattato, cioè la clausola di difesa reciproca che prevede l'obbligo per gli Stati membri di prestare aiuto con tutti gli strumenti in loro possesso ad un paese Ue che fosse vittima di un'aggressione (per un ex-ministro degli Esteri come Riccardo Terzi si tratta di un testo più stringente rispetto al patto atlantico e seguirebbe la logica dei cosiddetti volenterosi); contemporaneamente, poi, bisognerebbe utilizzare, seguendo la proposta del governo italiano, un meccanismo simile a quello dell'art. 5 della Nato che garantisca all'Ucraina, in attesa di un suo ingresso ufficiale nell'Alleanza, le stesse garanzie di solidarietà in modo da coinvolgere pure gli Stati Uniti. Se non è zuppa è pan bagnato.
Le ipotesi di allora non erano dettate dal dono della preveggenza ma solo dal buonsenso e anche oggi sono figlie della consapevolezza che per soddisfare la legittima aspirazione di Kiev di avere un futuro sicuro dopo una guerra durata quanto il primo conflitto mondiale, quella è la strada obbligata. Come pure è difficile immaginare dal punto di vista dell'Ucraina un confine diverso da quello dell'attuale linea del fronte. Il problema non è tanto l'entità dei territori ancora in mano all'esercito di Kiev che Putin esige per arrivare alla pace: si tratta del 22-25% del Donbas che equivale in termini di grandezza al Trentino Alto Adige. Non è molto. Solo che le conseguenze di una simile concessione per Kiev possono rivelarsi estremamente onerose sul piano politico. Accettare l'idea che un pezzo più o meno grande del Paese ancora in mani ucraine passi ai russi nell'ambito di un tregua significa in un modo o nell'altro ammettere di aver perso la guerra: un conto infatti è accettare una linea del confine determinata dall'equilibrio militare come avvenne in Corea, un altro è ritirarsi in ossequio ad un trattato che assegni quei territori ai russi. Di più: Kiev non ha ancora riconosciuto la sovranità russa sulla Crimea, tantomeno sui territori occupati da Mosca nel conflitto, ne è intenzionata a farlo. Concedere autonomamente quei 13mila chilometri quadrati sulla base di un accordo equivale nei fatti a riconoscere indirettamente la sovranità di Mosca sulla Crimea e sull'intero Donbass. Per un Paese che ha sopportato una guerra che ha mietuto centinaia di migliaia di vittime e causato distruzioni sarebbe un costo troppo alto. Una scelta del genere non ripagherebbe la popolazione dei sacrifici e delle le sofferenze che ha subito e finirebbe per mettere sul banco degli imputati Zelensky. La linea del fronte come confine, invece, non richiederebbe concessioni ma sarebbe solo una presa d'atto sull'altare del realismo. Magari per la superficialità e per l'ossessione per gli affari scambiata per diplomazia di Donald Trump queste possono sembrare sottigliezze inutili, cavilli o bizantinismi: solo che la pace, se è pace giusta e non una capitolazione, non può essere siglata sulla pelle dei popoli.

